Épisodes

  • Meloni sorride, Salvini si blinda: la Lega celebra il suo declino
    Feb 21 2025
    La Lega va a congresso. Chiamarlo congresso però sembra davvero un’esagerazione. Dopo anni di rinvii e giochi di potere, il 5 e 6 aprile si terrà un'assemblea che somiglia più a una liturgia di autoconservazione che a un vero momento di confronto. Il tema non ha nulla di politico: la sopravvivenza di un leader usurato, solo quello. Matteo Salvini, unico vero candidato, si appresta a blindare la sua leadership senza correre il rischio di una competizione reale. I delegati? Selezionati con cura. Il dibattito? Ridotto al minimo. La democrazia interna? Un esercizio di forma.
    Nel frattempo, le tensioni interne montano. I governatori del Nord, da Fedriga a Zaia, hanno passato anni a mugugnare senza mai costruire un’alternativa concreta. La spaccatura è evidente: la Lega delle Regioni si logora insieme al suo capo, incapace di liberarsi della sua ombra. E in Lombardia si combatte una guerra fratricida: il cerchio magico salviniano sabota Romeo, segretario regionale inviso a Via Bellerio. Non a caso, si vocifera di un rimpiazzo con Borghi o Marti, più fedeli alla linea del capo.
    Intanto Salvini gioca di sponda con lo staff comunicazione, moltiplicando gli slogan mentre il partito si svuota. Il tesseramento crolla, la base scricchiola, ma la parola d’ordine resta la stessa: restare aggrappati alla poltrona, a ogni costo. Così un partito nato per scompaginare la politica si riduce a essere parodia di se stesso, inchiodato a un leader che non può permettersi di perdere. Meloni si compiace di come gli alleati si condannino all’irrilevanza. Il congresso sarà solo un’altra prova di fedeltà al capo anche se il capo conta sempre meno. Il resto è folklore.

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  • Google salda il conto e se ne va: chi può, contratta
    Feb 20 2025
    Un assegno da 326 milioni e la procura di Milano archivia l’inchiesta. Google sistema i conti con il fisco italiano con un colpo di penna e un bonifico, chiudendo un’indagine che ipotizzava una "stabile organizzazione occulta" e l’omessa dichiarazione dei redditi prodotti in Italia. Una storia che suona ormai come un copione ripetuto: l’azienda giganteggia, il fisco indaga, la multinazionale paga e tutto torna a posto. Nessun processo, nessuna responsabilità, nessuna conseguenza oltre a un esborso che, rapportato ai profitti dell’azienda, sembra un dettaglio.
    Non è la prima volta che accade. Nel 2017 Google aveva già versato 306 milioni per chiudere un’altra vicenda simile. Netflix, Airbnb, Amazon, Meta: i giganti del digitale giocano una partita a parte, in cui l’azzardo fiscale ha un solo vero rischio, quello di dover saldare il conto senza interessi di mora. Intanto, il “Modello Milano” – la collaborazione tra procura, Agenzia delle Entrate e Guardia di finanza – ha recuperato due miliardi in tre anni, ma il punto è un altro. Non è la quantità di denaro recuperato, ma il meccanismo che si ripete: le grandi multinazionali non temono il fisco, lo contrattano.
    La distanza tra il piccolo imprenditore o la partita IVA che rischia la chiusura per una cartella esattoriale e il colosso che tratta a suon di centinaia di milioni è la fotografia di un sistema fiscale che non conosce equità. Per Google il pagamento è una soluzione, per gli altri un problema. Il messaggio, ancora una volta, è chiaro: la fiscalità è una variabile, non un dovere. E a chi il dovere lo rispetta, restano solo le briciole di un sistema in cui il peso fiscale si misura in base al potere, non alla legge.

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  • 2024, il peggior anno per il giornalismo
    Feb 19 2025
    Il 2024 è stato l’anno in cui sono stati uccisi più giornalisti da quando il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) ha cominciato a contarli. Sono 124 giornalisti ammazzati in diciotto Paesi, con Gaza che guida la drammatica classifica con 85 operatori uccisi durante l’offensiva israeliana.
    I palestinesi riferiscono che gli operatori dell’informazione uccisi nel 2024 sarebbero almeno 200, tenendo conto dei cameraman, dei tecnici e di altri operatori dell’informazione. Alcuni sono stati assassinati mentre lavoravano, altri mentre si trovavano nelle loro abitazioni con le loro famiglie.
    “È il momento più pericoloso per un giornalista nella storia del CPJ”, avverte la presidente del CPJ Jodie Ginsberg. “Inoltre, la detenzione dei giornalisti sta raggiungendo livelli record, evidenziando i crescenti rischi per i reporter e gli operatori dei media”. Secondo il rapporto del CPJ, almeno ventiquattro giornalisti in tutto il mondo sono stati deliberatamente uccisi nel 2024 a causa dei loro reportage. Altri reporter sono stati uccisi ad Haiti, in Messico, in Pakistan, in Myanmar, in Mozambico, in India, in Iraq e in Sudan.
    Secondo Ginsberg, il rischio per chi fa informazione è aumentato poiché i governi operano nell’impunità e non sono tenuti a rispondere degli attacchi alla stampa.
    Il giornalismo è sotto attacco, non solo per le bombe e le pallottole. Il logoramento delle democrazie ha bisogno di silenzio e cecità per rompere gli argini della propaganda. Quei morti sono un attacco a chi scrive ma anche a chi legge. Forse, per rendersene conto, servirebbero i funerali collettivi, oltre ai festival.

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  • Distorcere, omettere, riscrivere: il revisionismo in azione anche su Ustica
    Feb 18 2025
    Raccontano una realtà distorta sull’attentato di via Rasella. Omettono di dire che le vittime delle Fosse Ardeatine erano italiani, ebrei e antifascisti, scelti con la collaborazione della stessa polizia italiana.
    Da anni usano il Giorno del Ricordo come clava contro gli avversari politici, nel solco di quella che lo storico Emilio Gentile definiva la “defascistizzazione retroattiva del fascismo”. Tentano di riscrivere la storia riguardante la strage di Bologna del 2 agosto 1980; il deputato di Fratelli d'Italia, Federico Mollicone, ha definito le sentenze sulla strage come un "teorema politico" volto a colpire la destra.
    Al Tg1 delle 13, andato in onda domenica, è stato dato spazio a un libro che continua a sostenere la tesi della bomba a bordo come causa della tragedia di Ustica. Il Tribunale di Palermo, nella sentenza del 10 settembre 2011, ha concluso che l'incidente fu causato da un missile o da una collisione in volo, escludendo la presenza di un ordigno esplosivo a bordo. La Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2013, ha ribadito come il DC-9 sia stato abbattuto durante un'azione militare nei cieli italiani.
    La presidente dell'Associazione "Parenti delle Vittime della Strage di Ustica" si dice "scandalizzata per un'operazione che, più che informazione, si dimostra propaganda”.
    L’egemonia culturale tanto agognata dal governo Meloni è una fitta tela di perseveranti revisionismi che spopolano nelle reti pubbliche e in Parlamento. Nelle chat di partito, il ministro Lollobrigida invitava i colleghi di Fratelli d’Italia a mantenere la calma perché, una volta al governo, avrebbero fatto emergere “la verità”. Eccola.

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  • Più soldi alle armi, meno peso politico: l’Europa si condanna da sola
    Feb 17 2025
    La guerra è un pessimo affare per l'Europa. Si tagliano fondi a sanità e istruzione per finanziare il settore difesa, ma il 78% della spesa in armi finisce fuori dall'Ue, il 63% negli Stati Uniti. Un'Europa che investe nelle armi senza una strategia autonoma è un'Europa che si condanna all'irrilevanza geopolitica.
    L'Europa ha aumentato la spesa militare del 70% in tre anni, ma resta esclusa dalle trattative tra Mosca e Washington. Già con l'accordo di Doha, gli Usa avevano negoziato senza Nato ed Europa. Ora la storia si ripete: chi finanzia la guerra non decide la pace. Si assiste a un copione già scritto: chi comanda sono coloro che hanno le risorse economiche e militari, mentre l'Europa si limita a pagare il conto e a raccogliere le macerie politiche di scelte altrui.
    Zelensky ha rifiutato di cedere il 50% delle risorse minerarie ucraine in cambio di un accordo con gli Stati Uniti. Per Washington la guerra è un affare, non solo una questione di sicurezza. Il modello è chiaro: chi ha le risorse controlla la narrativa della guerra e della pace. L'Europa, invece, continua a perdere e a subire decisioni senza avere la forza di proporre un'alternativa credibile.
    I pacifisti, bollati come ingenui, avevano ragione: la guerra è solo distruzione e profitto per pochi. Le loro voci, soffocate dal rumore della propaganda, tornano ora a farsi sentire con l'amara consapevolezza che la storia gli aveva già dato ragione. Chi li ha ridicolizzati ora chiederà scusa? Difficile.

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  • L'ignoranza: un vero e proprio progetto politico
    Feb 13 2025
    Il museo non è per tutti. Questo sembra suggerire l’Italia, che riesce a trasformare in un’abitudine d’élite perfino l’accesso alla cultura. Lorenzo Ruffino ci restituisce un quadro impietoso: nel 2022 solo il 18 per cento degli italiani ha visitato almeno un museo. In Francia sono il 32 per cento, in Spagna il 39. E non si può dare la colpa alla pandemia: anche nel 2015 e nel 2006 eravamo tra gli ultimi in Europa.
    Chi va nei musei in Italia? Giovani e laureati. Tra i 16 e i 24 anni, il 31 per cento ha visitato almeno un museo, mentre oltre i 75 anni il dato precipita al 5 per cento. Non solo: chi ha una laurea va quattro volte di più nei musei rispetto a chi si è fermato alla terza media. Ma anche i laureati italiani sono meno assidui rispetto ai colleghi francesi e spagnoli. Da noi la distanza tra chi ha studiato e chi no è un fossato incolmabile.
    Il problema non sono i musei. Il problema è chi ha raccontato la cultura come un peso, chi ha smantellato ogni incentivo all’educazione artistica, chi ha reso la fruizione culturale una questione di censo. La responsabilità è politica, di governi che hanno considerato la cultura un orpello, un vezzo per pochi, e non un diritto. E mentre altrove i musei investono in accessibilità, interattività e nuove forme di narrazione, qui si tagliano i fondi, si soffocano le iniziative, si accetta il declino come inevitabile.
    Forse il problema non sono gli italiani che non vanno nei musei, ma chi li ha convinti che non ne valga la pena. Perché una cultura che non è sostenuta, non è cultura: è un bene svenduto al miglior offerente.

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  • Arrestare librai, spegnere il pensiero: l’ultimo atto della repressione israeliana
    Feb 12 2025
    Due librai arrestati. Due librai, non trafficanti, non pericolosi sovversivi. Due uomini che vendono libri e diffondono pensiero. Mahmoud e Ahmad Muna, della celebre Educational Bookshop di Gerusalemme Est, sono stati arrestati dalle forze israeliane. Il motivo? Non dichiarato, come accade spesso nei territori occupati, dove la legge diventa arbitrio e la libertà una concessione revocabile a piacere.
    Non si tratta di un caso isolato. Colpire il sapere è un atto strategico. Chi controlla la narrazione, controlla la storia. E chi vende libri in Palestina non diffonde solo pagine, ma resistenza culturale. La libreria Muna è da anni un punto di riferimento per studiosi, attivisti e chiunque voglia comprendere cosa significa vivere in un territorio dove la sopravvivenza passa anche per la parola scritta. Colpire una libreria è un messaggio chiaro: si teme la verità che quei libri raccontano.
    La rete delle librerie indie del Mediterraneo ha chiesto il rilascio immediato di Mahmoud e Ahmad. Un appello che dovrebbe scuotere coscienze e istituzioni, perché la libertà di leggere è il fondamento di ogni democrazia, anche quando questa democrazia si trasforma in oppressione. Bisogna chiamare le cose con il loro nome: impedire l’accesso ai libri è una forma di repressione sistematica, un attacco all’identità di un popolo. La stessa identità che qualcuno vorrebbe sovrapporre al terrorismo per avere il diritto di distruggerla.
    Arrestare librai significa temere il pensiero. E temere il pensiero significa aver già perso. Ma significa anche rivelare, una volta di più, il volto di chi opprime. E il mondo dovrebbe smettere di guardare altrove.

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  • Santanchè affonda, ma finge di nuotare
    Feb 11 2025
    Daniela Santanchè è ancora in bilico, ma ormai è solo questione di tempo. Ogni tentativo di difesa suona come un ultimo, disperato colpo di teatro. La ministra del Turismo, rinviata a giudizio per falso in bilancio e sotto il peso di un'indagine per truffa aggravata ai danni dell'Inps, resta incollata alla poltrona mentre il suo stesso partito la isola, scegliendo il silenzio alla Camera per evitare imbarazzi pubblici.
    La mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni non ha i numeri per passare, ma il problema per Santanchè non è più la tenuta parlamentare: è la credibilità, ormai frantumata. Il processo Visibilia inizierà il 20 marzo, e l’udienza per la presunta truffa all’Inps seguirà a stretto giro. A questo si aggiunge l’indagine per bancarotta fraudolenta legata al suo impero aziendale. Un quadro che rende la sua permanenza al governo una lenta agonia politica.
    Fratelli d’Italia la lascia sola: nessun intervento ufficiale nella discussione alla Camera, nessun gesto di solidarietà pubblico. Giorgia Meloni mantiene il distacco, lasciando che il destino della ministra si consumi da solo. Il centrodestra temporeggia, ma la strategia del silenzio ha un limite: Santanchè non può sopravvivere all’erosione continua della sua posizione.
    La politica, a volte, segue la semplice regola della gravità: quando il peso delle accuse è troppo grande, la caduta diventa inevitabile. La ministra ostenta sicurezza, sorride ai microfoni, prova a rilanciare il suo ruolo elogiando i numeri del turismo. Ma la sua parabola è segnata, e il silenzio della sua stessa maggioranza suona come il rintocco funebre di una carriera che si avvia verso il tramonto.

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